La recente proposta di legge avanzata dal deputato leghista Nino Minardo, in discussione presso il Ministero della Difesa, prevede l'istituzione di una riserva militare ausiliaria composta da 10.000 cittadini richiamabili in caso di emergenza bellica o crisi internazionale. I destinatari di questo richiamo non sarebbero civili qualsiasi, bensì cittadini già addestrati in passato dalle Forze Armate italiane: ex Volontari in Ferma Triennale (VFT), in Ferma Iniziale (VFI) o in altri ruoli militari temporanei oggi in congedo. La proposta si inserisce in un contesto internazionale complesso e teso, con l'Italia al centro di dinamiche geopolitiche sempre più critiche, soprattutto per i riflessi dei conflitti in Medio Oriente e l'instabilità alle porte dell'Europa.
Secondo il testo della proposta, il governo italiano potrà attivare questa forza di riservisti in tre casi principali: in caso di guerra, di grave crisi internazionale che minacci la sicurezza dello Stato, oppure nel caso venga dichiarato lo stato di emergenza nazionale. In ciascuna di queste ipotesi, però, il governo dovrà prima sottoporre la decisione al Parlamento, che avrà la facoltà di approvare o respingere il ricorso alla mobilitazione. Un passaggio formale che offre una parvenza di controllo democratico, ma che nella pratica potrebbe rivelarsi poco più di una ratifica automatica in situazioni considerate d'urgenza.
Il problema, tuttavia, non è soltanto tecnico o normativo. È morale. Etico. Umano. E su questo piano io voglio affermare con chiarezza: non nel mio nome. Non intendo in alcun modo rispondere a una chiamata alle armi, né per difendere interessi nazionali né per aderire a dinamiche di potere mascherate da nobili ideali. Posso comprendere il bisogno dello Stato di rafforzare le sue difese, soprattutto di fronte alla crescente insicurezza globale. Ma non accetto l'idea che la guerra sia una risposta legittima o inevitabile. Non credo che tornare ad armare cittadini, a trasformare uomini e donne in strumenti di guerra, possa mai essere considerata una soluzione degna di un Paese civile.
L'Esercito italiano conta oggi su circa 100.000 unità. Un numero considerato insufficiente nel caso di un conflitto prolungato o esteso. Per questo, l'Italia – seguendo il modello austriaco e quello già adottato da altri Paesi europei – sta cercando di rafforzare il comparto difensivo attivando una riserva militare permanente. Questi nuovi riservisti dovrebbero rendersi disponibili in ogni momento, sottoporsi periodicamente a corsi di aggiornamento e addestramento, mantenere un livello minimo di forma fisica e mentale, e soprattutto garantire la loro prontezza nel rispondere a un eventuale richiamo.
Questa visione però ignora un elemento fondamentale: la volontà dell'individuo. Io sono cittadino di questa Repubblica, ma non intendo essere soldato di nessuna guerra. La mia adesione ai valori costituzionali si manifesta attraverso la partecipazione civile, il rispetto delle leggi, l'impegno nel sociale, non con un'arma tra le mani. Se il Paese sarà in difficoltà, io ci sarò. Ma non con l'uniforme e il fucile. Sarò presente nella Protezione Civile, nella Croce Rossa, tra i volontari che distribuiscono viveri, costruiscono rifugi, curano i feriti. Sarò presente per salvare vite, non per toglierle.
La storia ci insegna che ogni guerra porta con sé una catena di tragedie, distruzioni e dolori che nessuna medaglia o parata potrà mai riscattare. E ogni richiamo alle armi, anche quando giustificato da emergenze reali, rischia di essere l'inizio di una spirale che non si sa dove possa finire. La difesa della Patria, come scrive la nostra Costituzione, è un dovere sacro. Ma difendere non significa solo combattere. Difendere significa anche costruire la pace, promuovere il dialogo, sostenere la coesione sociale. Difendere significa mettersi al servizio del bene comune senza diventare strumenti di guerra.
Mi rifiuto dunque di accettare questa logica bellica. Non ho nulla contro chi liberamente sceglierà di aderire alla riserva militare. Ma non deve mai esserci un automatismo, una pressione morale, un'aspettativa collettiva che spinga chi ha ricevuto un addestramento militare in passato a "rispondere alla chiamata" come fosse un obbligo patriottico ineludibile. Non è così. La libertà individuale deve essere preservata anche in tempo di emergenza. E ogni cittadino ha il diritto – e, forse, il dovere – di interrogarsi sul senso delle scelte che lo Stato gli chiede di compiere.
In conclusione, dico con fermezza e senza ambiguità: non nel mio nome. Non mi unirò a nessuna formazione militare, non parteciperò a conflitti armati, non imbraccerò armi contro altri esseri umani
La mia difesa della Repubblica sarà civile, non armata. Sarà fatta di impegno, di aiuto, di solidarietà. Perché la vera forza di una nazione non si misura dal numero dei suoi fucili, ma dalla coesione del suo popolo e dalla capacità di rifiutare la guerra come strumento di soluzione dei conflitti.
Marco Baratto
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