mercoledì 14 maggio 2025

Dallo Stadio al Campo da Tennis: Geopolitica e Spiritualità nei Pontificati di Francesco e Leone XIV”



La Chiesa è sempre stata, nel bene e nel male, specchio del tempo che abita. Ha attraversato secoli cambiando linguaggi, forme, simboli, ma mantenendo il cuore vivo della sua missione: annunciare Cristo. Eppure, se c'è qualcosa che nei tempi moderni ha saputo diventare un linguaggio universale, è lo sport. Non solo svago, ma narrazione epica, disciplina, identità collettiva. E proprio attraverso lo sport possiamo leggere, con uno sguardo simbolico ma profondo, due pontificati che segnano la storia recente: quello di Papa Francesco e quello di Papa Leone XIV. Due papi che, al di là delle differenze di stile, di approccio e di temperamento, hanno lasciato e stanno lasciando un segno nel modo di vivere la fede in un mondo segnato da crisi globali, guerre, cambiamenti culturali e mutazioni profonde nella coscienza collettiva.

Papa Francesco è stato, fin dall'inizio, un uomo "in campo". E non solo in senso metaforico. Nato Jorge Mario Bergoglio, tifoso dichiarato del San Lorenzo, ha sempre portato con sé quella passione genuina che il calcio rappresenta per milioni di persone. Ma la sua non è mai stata una semplice simpatia sportiva: il calcio, per lui, è una metafora esistenziale, ecclesiale, persino escatologica. Quando, durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro nel 2013, rivolgendosi ai giovani disse: "Siete il campo della fede! Siete gli atleti di Cristo!", stava indicando una via precisa. Il cristianesimo non è spettatore, ma giocatore. Non è una dottrina da contemplare dall'esterno, ma una partita da giocare con tutto se stessi. Il campo, nel suo immaginario, è luogo di sfida, di preparazione, di cadute e di risalite. È la vita quotidiana, ma anche il mondo intero, con le sue contraddizioni e le sue ingiustizie.

Francesco ha incarnato questo spirito sportivo anche nel suo stile di governo: diretto, appassionato, a volte impulsivo, sempre concreto. Non ha avuto paura di scendere nel fango della storia, di prendere posizione, di dire parole scomode. Ha parlato di pace, di misericordia, di accoglienza, ma anche di guerra, di ingiustizia, di ipocrisia. E proprio come accade nel calcio, dove ogni gesto è soggetto a interpretazioni diverse, anche il suo magistero è stato spesso letto con occhio sospettoso. 

Quando ha parlato della guerra in Ucraina, quando ha criticato le dinamiche economiche che alimentano i conflitti in Medio Oriente, molti gli hanno attribuito "tifoserie". Come se la sua voce non fosse quella di un pastore universale, ma di un supporter di una squadra piuttosto che di un'altra. È il destino di chi sta in campo: inevitabilmente si espone, si sporca, viene giudicato.

Ma è proprio questa esposizione che ha reso il pontificato di Francesco unico. Non ha temuto di sbagliare, ha accettato la complessità. Ha portato nella Chiesa l'odore del gioco vero, quello fatto di scelte difficili, di errori tattici, ma anche di gesti che cambiano le partite. 

Il suo "gioco" è stato spesso coraggioso, a tratti spericolato: la riforma della Curia, l'apertura verso le periferie, la scelta di mettersi in ascolto delle vittime degli abusi, la promozione di un dialogo interreligioso non teorico ma concreto. Tutto questo lo ha reso una figura scomoda per alcuni, adorata da altri, come accade ai grandi capitani di una squadra: non cercano consenso, ma vittoria. E nel caso del Vangelo, la vittoria è l'amore, la giustizia, la dignità per ogni uomo.

Con Leone XIV, però, cambia il campo. O meglio: cambia il tipo di sport. Non più il calcio, con il suo caos ordinato, la sua imprevedibilità, le sue folle entusiaste e i suoi cori da stadio. Il nuovo Papa preferisce il tennis. Uno sport apparentemente più solitario, più tecnico, più controllato. Ma non per questo meno competitivo o meno intenso. Anzi. Il tennis è un gioco di strategia, di equilibrio, di velocità mentale.

Papa Leone XIV ha fatto capire già dai suoi primi gesti che la sua postura sarà diversa. Nella sua omelia alle Chiese orientali del 14 maggio 2025 ha nei fatti offerto la Santa Sede come un terreno di gioco dove i nemici "si guardano negli occhi" . Praticamente il tennista Leprevost si è riservato il ruolo dell'arbitro , seduto  in una posizione alta, distante, ma necessaria per vedere bene, per avere una visione ampia del gioco.


Questo stile, che può sembrare freddo a chi era abituato al calore di Francesco, risponde però a un'esigenza diversa: quella di un'epoca che ha bisogno di ascolto profondo, di discernimento, di spazi di silenzio. 

Leone XIV non è un tifoso, non ama gli slogan, non cerca l'ovazione. È uno stratega. Preferisce le decisioni ponderate ai colpi di teatro. E come ogni buon tennista, sa che il momento decisivo può arrivare in silenzio, con un solo colpo ben assestato.

Anche nelle sue prime nomine e nei suoi primi gesti si intravede questo stile: nella riconferma di uomini fidati, una cerchia ristretta, ma solida. 

Una "partita di doppio", si potrebbe dire, più che una squadra da undici. Leone XIV non cerca di costruire un esercito, ma un tandem. Pochi, ma fortemente uniti. 

In questo senso, la sua visione ecclesiologica appare più verticale, più gerarchica, ma anche più trasparente. È una Chiesa che non urla, ma che osserva. Non per giudicare, ma per comprendere. Non per dominare, ma per custodire.

La differenza tra i due pontificati, però, non va letta come una contrapposizione, ma come una complementarietà. La Chiesa ha bisogno di papi pastori e di papi arbitri. Di capitani e di strateghi. Di carisma e di equilibrio.

 Francesco ha spalancato porte, ha acceso dibattiti, ha risvegliato energie sopite. Leone XIV potrebbe essere colui che organizza quel fermento, che gli dà una direzione. Uno ha giocato in attacco, l'altro potrebbe posizionarsi in regia, distribuendo i tempi del gioco. Entrambi, però, condividono lo stesso obiettivo: portare il Vangelo nel mondo. Non come ideologia, ma come proposta viva, incarnata, gioiosa.

In un tempo di grandi conflitti, la geopolitica dei papi non può essere ingenua. Francesco ha rotto il tabù della neutralità assoluta, ha denunciato con forza le logiche del profitto che alimentano le guerre, ha dato voce agli ultimi anche quando questo significava urtare gli equilibri diplomatici. 

Leone XIV potrebbe scegliere una via più diplomatica, ma non per questo meno incisiva. Il suo essere arbitro non è indifferenza, ma responsabilità. Non disimpegno, ma saggezza. Dove Francesco ha parlato con il cuore in mano, Leone parlerà con la bilancia della giustizia tra le mani.

Eppure, entrambi ci ricordano che la fede non è spettatrice. Che siamo chiamati a giocare, a prenderci responsabilità, a scegliere da che parte stare. Francesco ci ha fatto sentire parte di una squadra che lotta per i poveri, per i migranti, per l'ambiente. Leone XIV ci invita a giocare con intelligenza, a scegliere con maturità, a non lasciarci travolgere dalle emozioni. Sono due modi di vivere il cristianesimo, entrambi necessari, entrambi veri.

Forse la grandezza della Chiesa è proprio questa: essere spazio dove possono convivere lo slancio e la riflessione, la corsa e la sosta, la passione e il discernimento. Francesco ci ha fatto correre. Leone XIV ci inviterà a riflettere. Ma entrambi ci chiedono di non restare fermi. Di non rinunciare al campo. Perché il Vangelo non si vive in tribuna.

In definitiva, la partita della Chiesa non è tra Papi diversi, ma contro le logiche del potere, della guerra, della paura. E per vincerla, servono tutti i ruoli: i capitani che gridano "andiamo!" e gli arbitri che sanno dire "fermi!". Servono Francesco e Leone. Serve il calcio e serve il tennis. Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella storia, anche quando è complicata. Perché, come ogni buon sportivo sa, si gioca davvero solo quando ci si mette in gioco. E la fede, come lo sport, non è una teoria: è una sfida, una vocazione, una corsa che vale la pena vivere fino in fondo.

Marco Baratto

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