Ha ricevuto l'apprezzamento dei presenti l'intervento di Dries Van Langenhove al "Remigration Summit", evento che ha suscitato reazioni contrastanti in tutta Europa. L'ex parlamentare belga ha affermato con forza che "il nostro primo dovere è nei confronti della nostra gente. Salvare la terra dei nostri padri. La nostra proposta è una strategia chiara per salvare la nostra identità di popolazione europea. Solo la remigrazione rappresenta un modo legale e sicuro per gestire questo problema".
Il concetto di "remigrazione", ovvero la rimozione progressiva e selettiva degli immigrati, è stato presentato come una misura razionale, ordinata e "non violenta". Van Langenhove ha puntualizzato che non si tratterebbe di rimpatri di massa, bensì di un'azione rivolta innanzitutto contro "gli immigrati illegali" e successivamente contro "coloro che non si integrano, commettono reati o non accettano i valori europei".
Questa retorica, lucida ma profondamente ideologica, merita una riflessione più ampia alla luce dell'antropologia cristiana e del pensiero sociale della Chiesa. È significativo ricordare quanto Leone XIII, nell'enciclica In Plurimis, parlasse con parole forti e profetiche contro ogni forma di schiavitù, non solo fisica ma anche morale e sociale. Scriveva infatti: "Non possiamo permettere il sorgere di queste idee. [...] Ora, fra tante miserie, è da deplorare duramente la schiavitù a cui da molti secoli è sottoposta una parte non esigua della famiglia umana, riversa nello squallore e nella lordura, contrariamente a quanto in principio era stato stabilito da Dio e dalla Natura".
Secondo il Pontefice, Dio ha voluto che l'uomo esercitasse dominio solo sugli animali, "e non già che dominasse sugli uomini suoi simili". E Sant'Agostino rincara: "Che l'uomo non dominasse l'uomo ma il gregge". È chiaro, in queste parole, l'affermazione di una radicale uguaglianza tra gli esseri umani, fondata non su passaporti, etnie o provenienze, ma sulla comune immagine divina impressa nell'anima di ciascuno.
Il linguaggio della "remigrazione" si oppone frontalmente a questa visione. L'idea che esistano individui "non degni" di vivere in Europa perché non assimilano certi valori culturali è una forma sottile ma pericolosa di esclusione, una discriminazione che sconfina facilmente nel razzismo. Si tratta di una visione della società come corpo chiuso, che si preserva respingendo "l'altro", e non come comunità aperta, capace di accogliere e rigenerarsi.
A ben vedere, il concetto stesso di "identità europea" promosso da Van Langenhove è vago e arbitrario. L'Europa è da sempre incrocio di popoli, culture e fedi. La sua identità non è mai stata statica, ma frutto di processi storici, contaminazioni e persino conflitti. Pretendere di fissarla in un'epoca ideale, per poi escludere chi non vi rientra, significa cadere in una pericolosa mitologia identitaria.
E se l'obiettivo è tutelare i "valori europei", come possiamo dimenticare che uno dei cardini di tali valori è proprio il rispetto della dignità umana, il diritto d'asilo, la solidarietà verso chi fugge da guerra, povertà e persecuzione? Chi può arrogarsi il diritto di stabilire chi è "integrabile" e chi no? Il vangelo ci ricorda che il prossimo non si sceglie: è colui che ci passa accanto, colui che ha bisogno di noi.
Le parole di Leone XIII proseguono con una diagnosi che sembra scritta per i nostri tempi: "Vi furono uomini i quali, respinto il ricordo della originaria fratellanza, [...] cominciarono a considerare gli altri uomini al di sotto di sé e quindi a trattarli come giumenti nati per il giogo". È esattamente quanto accade oggi quando si parla degli immigrati solo come "problema" o "minaccia". Non si vedono più volti, storie, persone, ma flussi, numeri, statistiche. Una disumanizzazione pericolosa.
C'è poi un aspetto economico da non trascurare. Lo stesso Papa Francesco ha più volte denunciato il nuovo schiavismo generato dalle logiche delle multinazionali e del capitalismo sfrenato. Milioni di migranti vengono impiegati nei settori più duri e meno tutelati: agricoltura, logistica, edilizia, assistenza domestica. Sfruttati, ricattati, privati dei diritti, ma intanto indispensabili per far girare l'economia. È questo l'ipocrita paradosso della "remigrazione": da un lato si invoca l'espulsione, dall'altro si tollera – e si sfrutta – la manodopera a basso costo.
Chi oggi si ispira al Vangelo non può tacere di fronte a queste contraddizioni. Non può accettare che il cristianesimo venga strumentalizzato da movimenti che predicano l'esclusione, il nazionalismo etnico e l'egoismo culturale. Il "MAGA" negli Stati Uniti, così come il "Remigration Summit" in Europa, alimentano visioni del mondo che negano la fratellanza universale predicata da Cristo.
La Dottrina Sociale della Chiesa, da Rerum Novarum a Fratelli Tutti, è chiara: ogni forma di razzismo, ogni politica che mira a discriminare, marginalizzare o espellere chi è "diverso", è da considerarsi anticristiana. Non basta appellarsi alla legalità, alla sicurezza o all'ordine pubblico. Anche Hitler fece le sue leggi. Anche l'apartheid in Sudafrica era "legale". La giustizia, ci ricorda la Bibbia, non si misura solo con il diritto, ma con la carità.
Il Vangelo non ci chiede di rinunciare alla prudenza o alla sicurezza, ma ci impone di mettere sempre la persona al centro. Di non dimenticare che ogni migrante, ogni rifugiato, ogni straniero è Cristo che bussa alla nostra porta. Come dice Papa Francesco: "Ogni migrante ha un volto, una storia, un nome. Non sono numeri, ma fratelli".
Chi promuove l'ideologia della remigrazione – in nome della cultura, della tradizione o persino della religione – tradisce lo spirito del cristianesimo. Costruisce muri invece di ponti. Alimenta l'odio invece della speranza. E dimentica che non ci sarà salvezza per l'Europa se non saprà riconoscere nel volto dello straniero quello del buon samaritano.
Marco Baratto
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