Viviamo nel cuore di una nuova Guerra Fredda, ma senza i codici d'onore, le linee rosse rispettate, le diplomazie sottili che ancora sopravvivevano nel Novecento.
La guerra tra Russia e Ucraina è diventata un abisso morale, una spirale inarrestabile dove il sangue si è trasformato in notizia, le vittime in statistiche, la diplomazia in retorica sterile. Il mondo intero osserva, impotente. O meglio: si lascia scivolare verso il baratro, aspettando che qualcun altro faccia qualcosa. I governi accumulano armi, le alleanze si irrigidiscono, e le grandi potenze — anziché cercare un punto d'incontro — si rafforzano nei propri blocchi, ognuno convinto di avere ragione. Ma quando tutti hanno ragione, nessuno ha più umanità. È in questo vuoto — drammatico, spirituale, storico — che l'unica voce rimasta veramente libera deve agire: quella della Santa Sede.
Fin dallo scoppio del conflitto Papa Francesco ha alzato la voce contro la logica della guerra. Non ha mai ceduto al linguaggio del "male assoluto" o della "guerra giusta", non ha mai accettato che esistano conflitti necessari. Ha definito la guerra in Ucraina — e ogni altra guerra — una "pazzia", una "sconfitta per l'umanità".
Ha mandato i suoi emissari a Kyiv, ha parlato apertamente a Mosca, ha ricevuto capi di Stato, ha lanciato appelli, ha fatto ciò che era nelle sue possibilità. Ma oggi non basta più parlare. Serve un gesto. Serve un'azione che superi la parola.
E allora ecco l'appello, chiaro, forte, urgente: al Santo Padre Papa Leone XIV Mandi il Segretario di Stato in missione di pace, e lo faccia ora Giovedì. In Turchia. Difronte alla presenza del Segretario di Stato, rappresentante del Santo Padre, del Presidente Ucraino e di quello americano, anche la Russia non potrà negare la sua presenza .
La provocazione è anche una proposta. Che il Vaticano si faccia promotore di un tavolo di pace visibile, reale, fisico. Non una telefonata riservata. Non un incontro ai margini di una conferenza.
Più avanti serve un gesto profetico che cambi l'atmosfera, che costringa tutti a prendere posizione: la Santa Sede come luogo neutro, la Turchia come spazio geopolitico intermedio, il Segretario di Stato vaticano come catalizzatore. E attorno a lui, i protagonisti di questo dramma globale: Volodymyr Zelensky, presidente di un popolo martoriato ma resistente; Vladimir Putin, figura centrale e controversa, ma imprescindibile per chiunque voglia fermare la guerra; Ursula von der Leyen, voce dell'Europa, che finora ha parlato soprattutto con le armi; Donald Trump, outsider ma non irrilevante, che ha promesso — a torto o a ragione — di poter fermare la guerra "in 24 ore".
È tempo di verificare chi davvero vuole la pace. Chi accetta di sedersi, anche solo per parlare. E chi, invece, teme il dialogo più dei droni. È tempo che il Vaticano torni ad essere ciò che è stato in altri tempi: la coscienza del mondo. Non un attore religioso nel senso stretto, ma un faro che, senza eserciti né interessi economici, può parlare a tutti. La forza della Santa Sede non è la potenza, ma la credibilità. È l'unica entità al mondo che può rivolgersi ai governi senza chiedere nulla in cambio. È l'unica istituzione che può invitare Putin e Zelensky, Trump e von der Leyen, e farlo senza schierarsi, ma anche senza essere equidistante tra vittime e carnefici. Perché il compito della pace non è bilanciare il bene e il male, ma far uscire entrambi dallo scontro.
L'ispirazione viene anche dalla cultura popolare. Nel 1968, in piena Guerra Fredda, uscì un film visionario: L'uomo venuto dal Kremlino. Raccontava la storia di un cardinale russo, ex prigioniero dei gulag, che diventava un ponte tra due mondi nemici. Era finzione, certo, ma con un messaggio profondissimo: anche nell'epoca più ideologica, più armata, più cinica, può emergere una figura capace di parlare a entrambi gli schieramenti. Oggi serve qualcosa di simile. Non serve un nuovo cardinale sovietico, ma serve un uomo del Vaticano, che abbia la benedizione del Pontefice e il mandato di dire al mondo: "È ora di fermarsi".
Papa Francesco ha già mostrato in mille modi la sua attenzione. Ha ricevuto delegazioni ucraine, ha parlato con i russi, ha mandato il cardinale Zuppi in missioni riservate. Ma il rischio è che la voce morale resti prigioniera della discrezione diplomatica, quando invece serve una scossa pubblica. Un gesto che faccia notizia, che rimetta la pace al centro dell'attenzione. Che spinga l'opinione pubblica mondiale a chiedere: "Perché no?". Perché non un tavolo a Istanbul? Perché non ora? Perché non provarci, prima che sia troppo tardi?
La Turchia, crocevia tra Europa e Asia, è il luogo perfetto: non appartiene al fronte occidentale, ma è membro della NATO; ha dialoghi aperti con Mosca, ma anche relazioni con Kyiv; ospita milioni di profughi e conosce bene il costo della guerra. Un incontro lì, promosso dal Vaticano, non sarebbe una conferenza né un negoziato finale, ma un primo gesto concreto di dialogo. Una convocazione morale più che politica. Ma proprio per questo, potente. Che i grandi della Terra vengano, che ascoltino la voce di chi non porta interessi, ma una sola richiesta: "Provateci". Provate a guardarvi negli occhi. Provate a parlare. Provate a fermare almeno per un giorno le armi, per aprire uno spiraglio alla trattativa. La storia insegna che le grandi svolte non cominciano con un trattato, ma con un gesto. Con un viaggio a sorpresa. Con una stretta di mano inattesa. Con un invito che nessuno si aspettava.
Chi dirà di no? Chi avrà il coraggio di rifiutare apertamente un invito alla pace, se fatto dalla Santa Sede? Chi potrà dire: "non è il momento", mentre migliaia di persone muoiono ogni mese, mentre il conflitto si estende a nuovi territori, mentre il rischio nucleare torna minaccioso? Il vero coraggio oggi è osare ciò che sembra impossibile.
È fare come Leone Magno, che uscì dalle mura di Roma per incontrare Attila e lo convinse a fermarsi. Non con la forza, non con la minaccia, ma con la sola autorità morale di chi rappresenta qualcosa di più grande. Ecco perché chiamiamo oggi Papa Leone XIV — a fare lo stesso: mandare il suo uomo ed offrire la Santa Sede come luogo della vera pace duratura
Che il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, parta giovedì stesso. Che vada in Turchia, che apra il dialogo, che inviti pubblicamente i leader coinvolti. Non importa se verranno subito. Non importa se accetteranno in silenzio o rifiuteranno con scuse formali.
L'importante è che il gesto venga compiuto. Che il mondo veda che qualcuno ha il coraggio di fare il primo passo. E che lo faccia non in nome di un'ideologia o di un interesse, ma in nome della pace, quella vera. Quella che non conviene a nessuno, ma salva tutti.
Questo è un tempo in cui l'umanità sembra stanca, sfiduciata, rassegnata. Eppure, proprio in questi momenti, la storia cambia direzione. Non quando tutto è pronto, ma quando qualcuno osa prima del tempo. È accaduto con Giovanni XXIII e Pacem in Terris, è accaduto con Giovanni Paolo II che sfidò l'invasione dell'Iraq, è accaduto persino con leader laici che hanno sorpreso il mondo con gesti inattesi. Può accadere ancora. Se qualcuno, nel cuore del Vaticano, decide che la pace non è solo un sogno, ma una responsabilità.
Il mondo guarda, spera, dubita. I media alimentano la paura. I politici cercano consensi. Ma nel cuore di milioni di persone, anche in Russia, anche in Ucraina, anche in Europa, c'è un grido inascoltato: "Basta guerra". Chi darà voce a quel grido, se non il Papa? Chi trasformerà quella speranza in un fatto, se non la Chiesa? Chi aprirà la porta, se nessuno osa bussare?
Ecco perché oggi l'unica azione veramente rivoluzionaria è quella della pace. Non la pace come propaganda, ma come gesto concreto. Non come compromesso, ma come atto di coraggio. Non come retorica spirituale, ma come missione reale. È tempo che la Santa Sede torni a essere non solo simbolo, ma motore della riconciliazione.
Leone XIV, dia subito un segnale forte e chiaro, sia la Pace !
Marco Baratto
Nessun commento:
Posta un commento