venerdì 9 maggio 2025

Roma-Pechino: Leone XIV e la partita strategica tra Santa Sede e Cina

Il brevissimo dispaccio dell'agenzia di stampa ufficiale Xinhua — "La Chiesa patriottica e la Conferenza episcopale si congratulano con papa Leone XIV" — potrebbe sembrare marginale. Ma, in ambito geopolitico, le comunicazioni ufficiali cinesi, soprattutto quando coinvolgono religione e relazioni internazionali, sono sempre calibrate al millimetro. Quel messaggio, asciutto ma carico di significato, rivela un preciso posizionamento di Pechino verso la Santa Sede, nel delicato contesto dei rapporti tra lo Stato cinese e la Chiesa cattolica.

Il gesto arriva a pochi mesi dalla proroga dell'accordo provvisorio siglato nel 2018 tra la Santa Sede e il governo cinese, rinnovato per altri quattro anni nell'ottobre 2024. Un'intesa definita "storica", che ha consentito un riconoscimento congiunto dei vescovi, nel tentativo di superare la contrapposizione tra due realtà parallele: la Chiesa cattolica sotterranea, fedele a Roma, e la Chiesa patriottica, controllata dallo Stato. La firma e le successive proroghe dell'accordo sono state possibili grazie all'approccio diplomatico di papa Francesco, fondato su pragmatismo e dialogo interreligioso. Ora, con Leone XIV, si apre una nuova fase.

La posta in gioco ecclesiale
Il nodo principale resta la questione episcopale. Per Roma, la nomina dei vescovi è prerogativa ecclesiale non negoziabile. Per Pechino, è questione di sovranità interna. L'accordo del 2018 ha cercato un equilibrio: il governo cinese propone i nomi, il Papa conferma o rifiuta. Tuttavia, le modalità di applicazione restano opache, e i casi di nomine unilaterali da parte cinese non sono scomparsi. Inoltre, molti membri della Chiesa sotterranea non riconoscono la legittimità dell'accordo, vedendolo come una concessione al regime.

Il rischio che si corre è quello di uno scollamento interno: una parte della comunità cattolica cinese percepisce il compromesso come una rinuncia ai principi in favore di un dialogo che non tutela realmente la libertà religiosa. A ciò si aggiungono pressioni, intimidazioni e arresti nei confronti di vescovi e sacerdoti non registrati presso l'Associazione patriottica, che restano fortemente sorvegliati o persino perseguitati.


La Cina di Xi Jinping ha una visione molto precisa della religione: può esistere solo se è "sinicizzata", ossia pienamente adattata alla cultura e alla direzione politica del Partito Comunista. Per questo, qualsiasi struttura religiosa autonoma — in particolare se legata a poteri esterni, come nel caso della Chiesa cattolica — è vista con sospetto.

Tuttavia, Pechino non intende spezzare i legami con Roma. Al contrario: mantenere un canale aperto serve ad assorbire eventuali tensioni, a proiettare un'immagine internazionale più tollerante e a prevenire l'instabilità sociale interna che un conflitto religioso aperto potrebbe generare. Il rinnovo dell'accordo e le congratulazioni al nuovo papa sono strumenti di questa strategia: segnalano apertura, ma anche controllo.

Inoltre, Pechino guarda con interesse alla proiezione globale della Santa Sede. Pur non essendo una potenza militare o economica, il Vaticano esercita un'influenza morale e diplomatica su scala planetaria, con una rete di relazioni che attraversa tutti i continenti. La Cina sa che avere un canale, anche non formale, con un attore di questa natura può rivelarsi utile in dossier internazionali complessi, come le crisi umanitarie, le mediazioni multilaterali, i rapporti con l'Africa e l'America Latina.


Il nuovo pontefice si trova di fronte a un'eredità ambivalente. Se da un lato il dialogo con Pechino ha portato a una certa distensione, dall'altro ha lasciato strascichi interni e critiche esterne. Non sono pochi, infatti, i vescovi, teologi e osservatori che ritengono l'accordo del 2018 sbilanciato a favore del Partito Comunista, in quanto ha riconosciuto de facto la legittimità della Chiesa patriottica senza ottenere garanzie reali per la libertà di culto.

Leone XIV dovrà scegliere se rafforzare il processo di normalizzazione, accettando gradualmente l'integrazione della Chiesa cinese sotto nuove forme, oppure se rinegoziare le condizioni dell'accordo, cercando una maggiore trasparenza e una tutela più netta dei fedeli clandestini. In ogni caso, il suo approccio sarà cruciale: potrà consolidare un processo di lungo periodo o aprire una nuova stagione di tensioni.

Il breve messaggio di Pechino e le dichiarazioni del portavoce del Ministero degli Esteri, Lin Jian — "auspichiamo che la Santa Sede continui a impegnarsi in un dialogo costruttivo e a condurre una comunicazione approfondita su questioni internazionali di reciproco interesse" — suggeriscono un interesse cinese a portare il rapporto oltre il solo ambito ecclesiale. È un invito a cooperare anche su temi globali: cambiamento climatico, migrazioni, pace e mediazione nei conflitti.

Da parte del Vaticano, questa apertura può essere letta come una possibilità di incidenza internazionale. Ma è anche un terreno scivoloso. Accettare il dialogo in questi termini implica il rischio di legittimare implicitamente pratiche di controllo e repressione religiosa. Per questo, ogni passo dovrà essere calibrato con estrema attenzione, mantenendo ferma la distinzione tra diplomazia pastorale e diplomazia politica.

L'elezione di Leone XIV e la risposta positiva, per quanto formale, di Pechino aprono una nuova fase nella relazione tra Cina e Santa Sede. Si tratta di una partita strategica, giocata su più piani: ecclesiale, geopolitico, culturale. Entrambe le parti sembrano interessate a mantenere aperto il canale. Ma il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli.

Il futuro dei rapporti Vaticano-Cina dipenderà dalla capacità del nuovo papa di bilanciare il principio di realismo diplomatico con la missione universale della Chiesa, e dalla volontà cinese di concedere alla dimensione religiosa uno spazio non puramente funzionale alla logica statale.

Il Dragone ha mosso un pedone sulla scacchiera. Ora tocca a Roma decidere se rispondere con una mossa prudente, audace o semplicemente attendista. La posta in gioco è ben più che diplomatica: riguarda il ruolo stesso della religione nel XXI secolo globale.

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