Nel paesaggio montano della Valle Trompia e della Valle Sabbia, tra sentieri impervi e boschi fitti, si svolse una storia poco conosciuta ma straordinaria, che racconta il valore, la sofferenza e l'impegno di un gruppo di giovani russi che scelsero di unirsi alla lotta contro il fascismo. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, l'Italia si trovò in un caos profondo, e molti prigionieri di guerra e soldati stranieri riuscirono a fuggire dai campi di concentramento o dai reparti tedeschi in cui erano costretti a lavorare. Tra loro c'erano alcuni giovani russi, che trovarono rifugio e un nuovo senso alla loro fuga proprio nelle montagne bresciane.
Questi uomini, provenienti da un mondo lontano, riuscirono a formare un piccolo gruppo organizzato. Una quindicina di loro si riunì attorno alla figura carismatica di Nicolaj Petrovich Pankov, un giovane moscovita nato nel 1922, ex allievo ufficiale dell'esercito sovietico. Pankov, soprannominato "Nicola", divenne rapidamente il punto di riferimento per i suoi compagni. Il gruppo si stabilì inizialmente nei pressi della Valle Trompia, mantenendosi in movimento continuo tra boschi e vallate, spingendosi anche verso la Valle Sabbia.
Ciò che rende la loro esperienza unica è la tenacia con cui riuscirono a sopravvivere durante il rigido inverno del 1943-1944, nonostante fossero privi di equipaggiamenti adeguati, mezzi di sostentamento e protezioni. Non erano soldati ben armati, ma giovani in fuga, spinti dal desiderio di libertà e dalla volontà di opporsi a un sistema che aveva distrutto le loro vite. Trovarono supporto tra alcune figure locali, in particolare in ambienti antifascisti e comunisti. Questo sostegno fu fondamentale: grazie a reti clandestine di solidarietà, i russi ricevettero viveri, indicazioni, aiuto logistico.
Durante i primi mesi, il gruppo non compì azioni militari dirette. La loro preoccupazione principale era sopravvivere. Si approvvigionavano requisendo cibo da commercianti e industriali legati al regime fascista, con estrema attenzione a non danneggiare le famiglie contadine o la popolazione povera. Questo codice morale interno al gruppo era talmente forte che arrivarono anche a punire severamente chi trasgrediva: un membro fu giustiziato dagli stessi compagni per un furto che rischiava di compromettere i rapporti con la popolazione locale.
Nonostante la durezza della vita tra i boschi, gran parte dei russi decise di restare. Alcuni pensarono di scendere a valle, verso la pianura, ma la maggioranza scelse di continuare a resistere. Col passare delle settimane, la loro presenza divenne un punto di riferimento anche per alcuni giovani italiani della Valle Trompia, affascinati dal loro coraggio e dalla loro determinazione. In un certo senso, questi stranieri diventarono catalizzatori di nuove vocazioni resistenziali locali.
Con l'arrivo della primavera del 1944, il gruppo assunse un ruolo più attivo nella Resistenza. Le montagne si fecero meno ostili, i collegamenti più semplici, e nuove forze si unirono alla lotta. Tra le azioni più importanti portate a termine dal gruppo Nicola, spicca l'assalto alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana a Brozzo, avvenuto il 28 giugno. Fu un colpo diretto al cuore del potere fascista locale, e rafforzò ulteriormente la reputazione dei russi tra le fila partigiane e tra la popolazione.
Nonostante l'ammirazione crescente, il gruppo mantenne la propria autonomia. Le formazioni partigiane italiane cercarono più volte di assorbirli all'interno delle strutture già esistenti, ma Nicola e i suoi compagni preferirono mantenere un'organizzazione separata. Questa scelta rispondeva a ragioni pratiche e culturali: differenze linguistiche, una visione militare più disciplinata e una diffidenza reciproca impedirono una fusione immediata. Tuttavia, i legami con il movimento antifascista italiano si rafforzarono gradualmente.
Nel mese di agosto, le pressioni per "regolarizzare" il gruppo si fecero più intense. Furono avviati contatti per far confluire il gruppo in una formazione partigiana riconosciuta, in particolare nella brigata "Matteotti". A quel punto, il gruppo era composto da 26 uomini, di cui 21 russi, armati con mitragliatori, mitra, moschetti e pistole. Il loro armamento, conquistato e conservato con grande fatica, era ormai adeguato a sostenere operazioni di guerriglia più complesse.
Ma il tempo stava per scadere. Il 26 agosto 1944 ebbe inizio un massiccio rastrellamento da parte delle forze tedesche e repubblichine. Era una reazione decisa alle attività partigiane in crescita in tutta la zona. Il gruppo Nicola si disperse. Alcuni furono catturati, altri riuscirono a raggiungere le fila di altre formazioni, come la brigata "Monte Suello" in Valdorizzo. Nicola, invece, rimase isolato con un compagno, Michele. La sua sorte fu tragica: fu catturato e ucciso non dai nemici dichiarati, ma da un gruppo di garibaldini italiani. Le ragioni di questo atto restano ancora oggi oggetto di discussione e riflessione: rivalità interne, sospetti, errori. È uno degli aspetti più amari e controversi di quella stagione.
Dopo la fine del gruppo, i russi superstiti furono integrati nei distaccamenti della brigata "Lorenzini", e successivamente si cercò di metterli in salvo oltre confine. Tra ottobre e novembre 1944, fu organizzato il loro trasferimento in Svizzera. Alcuni riuscirono a oltrepassare il confine, ma non tutti ce la fecero. In Val Brandèt venne ritrovato un russo ferito, che fu poi curato e portato in salvo, mentre un altro, Stefan Rudienko, morì assiderato, a pochi passi dalla libertà.
Il contributo di questi giovani russi alla lotta partigiana italiana è stato a lungo dimenticato, sottovalutato o relegato a nota marginale nelle cronache della Resistenza. Eppure, la loro storia è una testimonianza straordinaria di coraggio, solidarietà e scelta morale. Non combatterono per la loro patria, né per un ritorno glorioso, ma per un'idea più ampia di giustizia e dignità umana.
La loro presenza sulle montagne bresciane dimostra come la Resistenza fu anche un fenomeno internazionale, un incontro di destini che travalicava i confini nazionali. Quei ragazzi russi, persi in una terra straniera, trovarono un senso nella lotta collettiva contro l'oppressione. La loro memoria vive nei racconti tramandati, nei luoghi attraversati, e nel ricordo silenzioso delle montagne che li accolsero. A loro va un posto d'onore nella storia della libertà.
Marco Baratto
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